Ieri sfogliando un giornale mi sono imbattuta in questo articolo di Tiziana Lo Porto di cui riporto ampie parti.
La giornalista esordisce ricordando un lontano carnevale in cui si era travestita, senza saperlo da flapper.
Lo avrebbe scoperto poi nei romanzi di Fitzgerald, nei film muti di Louise Brooks e Mary Pickford: essere una flapper non era una moda ma un'attitudine, un modo di scegliere chi volere essere senza mai perdere di vista se stessi.
Alcuni dizionari traducono il termine con "ragazza emancipata", altri con "maschietta". Ma nessuna delle due definizioni e sufficiente.
Il termine deriva dal verbo to flap e allude allo sbatter d'ali degli uccellini che imparano a volare. Il primo a usarlo fu Desmond Coke nel 1903 nel suo romanzo The Sandford of Merton. La flapper era una giovanissima ragazza che emanava irriverenza; una sorta di Lolita che fumava, beveva e ballava lo shimmy e il charleston evocando, col fruscio degli abiti, il flapping degli uccellini al loro primo volo.
Flapper diventarono così tutte le giovani donne che negli anni Venti sfidarono- con il loro modo di vestire, parlare e comportarsi - le convenzioni dell'epoca.
(Clara Bow, attrice dell'epoca)
Usavano la propria bellezza per emanciparsi dall'immagine della donna infelice e vittima, prigioniera di una famiglia non sempre desiderata, personaggio secondario e mai protagonista della propria vita. La parità la cercavano anche loro, ma di notte: fumando e bevendo a garganella come uomini, frequentando speakeasy e nightclub.
A dare loro popolarità come modello di vita per tutte furono Francis Scott Fitzgerald e le attrici del muto.
Il primo fece della moglie un'icona, rendendola irresistibile protagonista dei suoi popolarissimi romanzi.
Non dimentichiamo che Zelda fu autrice del Panegirico di una flapper pubblicato nel giugno del 1922.
(Zelda)
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