mercoledì 14 marzo 2012

20134Lambrate_Joan Didion, Blue Nights


Non leggo l’autore, ma la scheda.
“Blue Nights sono le ore lunghe e luminose della sera che a New York preannunciano il solstizio d’estate, «l’opposto della morte del fulgore, ma anche il suo annuncio». Sono passati sette anni da quando Joan Didion...”
Joan Didion?! Lei! L’anno del pensiero magico! Non ho capito bene la frase, ma che importa!
Joan Didion! 
                          
Salto qualche riga e mi fermo su una frase.
“A fare i conti con la propria, inaspettata vecchiaia.”

"La vita cambia in fretta.
La vita cambia in un istante,
Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell'autocommiserazione. Ecco le prime parole che scrissi dopo che accadde. La data dei file di Microsoft Word sul computer («Note sui cambiamenti.doc») è «20 maggio 2004, ore 23.11», ma quello dev'essere stato il momento in cui, dopo averlo aperto, ho schiacciato prudentemente il tasto per salvarlo. Non avevo fatto cambiamenti in quel file, in maggio. Non avevo fatto cambiamenti da quando avevo scritto quelle parole, nel gennaio 2004, un giorno o due o tre dopo il fatto.
Per molto tempo non scrissi altro.
La vita cambia in un istante.
Un normale istante.
A un certo punto, per ricordare quello che sembrava più sorprendente in ciò che era accaduto, pensai di aggiungere quelle parole, «un normale istante». Capii subito che non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere la parola «normale», perché sarebbe stato impossibile dimenticarlo: quella parola non mi è mai uscita di mente. Era infatti la normalità di tutte le cose che avevano preceduto il fatto a impedirmi di credere veramente che fosse accaduto, a impedirmi di assorbirlo, di incorporarlo, di superarlo. Oggi riconosco che non c'era nulla di straordinario in questo: davanti a un disastro improvviso tutti noi finiamo per notare com'erano irrilevanti le circostanze in cui è successo l'impensabile, il terso cielo blu da cui è caduto l'aereo, un giro in macchina che è finito in un fosso tra le fiamme, le altalene dove come sempre giocavano i bambini quando il serpente a sonagli è sbucato dall'edera. «Stava tornando dal lavoro - felice, fortunato, sano - e poi... addio» ho letto nella storia di un'infermiera di una clinica psichiatrica il cui marito morì in un incidente stradale. Nel 1966 mi capitò di intervistare molte persone che vivevano a Honolulu la mattina del 7 dicembre 1941; tutte, senza eccezione, iniziavano la loro storia di Pearl Harbor dicendomi che era stata una «normale domenica mattina». «Era una bella giornata, una normale giornata di settembre» dice ancora la gente quando qualcuno le chiede di descrivere la mattina newyorkese in cui il volo 11 delle American Airlines e il volo 175 delle United Airlines andarono a schiantarsi contro le torri del World Trade Center. Anche il rapporto della Commissione 9/11 si apriva su questa nota, insistentemente premonitoria ma anche attonita: «L'11 settembre 2001, martedì, fin dal mattino negli Stati Uniti orientali fu un giorno temperato e quasi senza nubi».
«E poi... addio.» Nel bel mezzo della vita noi siamo nella morte, dicono gli episcopali al cimitero. Più tardi mi resi conto che dovevo avere ripetuto i particolari dell'accaduto a tutte le persone che erano entrate in casa in quelle prime settimane, tutti quegli amici e parenti che portavano roba da mangiare e preparavano qualcosa da bere e apparecchiavano il tavolo della sala da pranzo per chi si trovava lì, molti o pochi che fossero, all'ora di pranzo o all'ora di cena, tutti quelli che sparecchiavano e mettevano in frigo gli avanzi e accendevano la lavastoviglie e riempivano la nostra (ancora non riuscivo a dire la mia) casa vuota anche dopo che io ero andata in camera da letto (la nostra camera da letto, quella in cui sopra un divano giaceva ancora uno stinto accappatoio di spugna extra large comprato negli anni settanta da Richard Carroll a Beverly Hills) e avevo chiuso la porta. Quei momenti in cui venivo bruscamente sopraffatta dalla stanchezza sono, dei primi giorni e delle prime settimane, la cosa che ricordo più chiaramente. Non ricordo di avere parlato dei particolari con nessuno, ma devo averlo fatto, perché tutti sembravano conoscerli. A un certo punto considerai la possibilità che li avessero attinti gli uni dagli altri, ma la scartai immediatamente: la storia che raccontavano era in ogni caso troppo precisa per essere stata passata di mano in mano. Veniva da me."

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